Molto spesso, parlando con clienti, ospiti della Bottega e followers sui social, ho notato una certa confusione in materia di “religiosi“, anche nell’uso dei termini. Sapete che detesto le banalizzazioni su questa che è stata, per molti anni, la mia vita. Monaco, monaca, frate, suora… sono termini differenti, che identificano “cose” diverse e che hanno origini storiche diverse. Cerco di andare con ordine, sperando di suscitare la vostra curiosità.
Il termine “monaco”, sarò di parte lo ammetto, ha in sè una ricchezza di significati e di potenzialità. La sua radice è il greco μόνος monos, che significa “uno, solo”. Troviamo già questo termine nella filosofia greca: ad esempio, Platone (Atene, 428 a.C. – ibidem, 347) utilizza la parola monakos per identificare qualcosa di unico o di solitario; per Plotino (Licopoli, 203 d.C. – Campania, 270) l’Uno che è in cima alla scala degli esseri, cioè Dio, è monakos. Dunque risulta normale per un mondo che parla e pensa in greco usare questo termine monakos per definire i primi eremiti cristiani.
Infatti, nel III secolo dell’era cristiana, spinti probabilmente anche dalle persecuzioni romane, vediamo comparire nelle aree desertiche di Egitto, Palestina e Siria gli anacoreti (dal greco ἀναχωρεῖν anachōrêin, ritirarsi). Si tratta di individui che abbandonano la società per condurre una vita solitaria, dedicandosi all’ascesi, alla preghiera e alla contemplazione. Tra essi ricordiamo San Paolo di Tebe (Egitto, 230 d.C. – deserto della Tebaide, 335), considerato il primo eremita (dal greco ρημίτης erēmitēs, del deserto), proprio perchè ritiratosi nel deserto egiziano. Più tardi, nel V secolo, in tempi più pacifici per i cristiani, troviamo gli stiliti, che scelgono di vivere in cima ad una colonna, in totale contemplazione e solitudine.
Un discepolo di Paolo di Tebe rivoluziona la vita religiosa: Antonio (Qumans, 251 – deserto della Tebaide, 356), detto anche Antonio il Grande o Antonio del Deserto o S. Antonio Abate, costituisce famiglie di monaci eremiti che sotto la guida di un padre spirituale, l’Abbà o Abate, si consacrano al servizio di Dio, con un minimo di vita comunitaria stabilita da consuetudini e regole. Ragion per cui Antonio è considerato il fondatore del monachesimo. Qui il termine monakos assume una duplice accezione: quella della unità di una famiglia che condivide una regola e una consacrazione e quella spirituale/psicologica dell’unificazione e del combattimento interiore.
Poco dopo vediamo comparire il fondatore del monachesimo cenobitico: San Pacomio (Esna, 292 – Pabau, 348) elabora la più antica regola di vita comune ed è il fondatore della prima abbazia, nel 320 circa, presso Tabennisi nella regione egiziana della Tebaide. I monaci cenobiti (dal greco κοινόβιον koinóbion, vita comune) sono i monaci che vivono in uno stesso luogo, sotto una Regola e un Abate, dedicandosi alla preghiera e al lavoro. Da questa intuizione di Pacomio nascono successivamente tutti gli Ordini Monastici d’oriente e d’occidente.
Per quanto riguarda i monaci cenobiti orientali, potete farvi una idea visitando un qualsiasi monastero durante le vostre vacanze in Grecia o nel Mediterraneo orientale; oppure, in Italia, visitando il Monastero Esarchico di Santa Maria di Grottaferrata (Roma) retto dai Monaci Basiliani, che seguono appunto la Regola di San Basilio (Cesarea in Cappadocia, 329 – ibidem, 379) e celebrano in rito orientale.
Per l’occidente, invece, la pietra miliare la pone San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 – Montecassino, 547): fonda i cenobi di Subiaco (Roma) e Montecassino (Frosinone) e intorno al 540 d.C. compone i 73 (più uno, il prologo) capitoli della sua Regola. Con essa, stabilisce tutti gli aspetti della vita in monastero: la preghiera e il lavoro (“ora et labora”), gli orari, gli incarichi, il cibo, l’ospitalità, l’obbedienza e la stabilitas del monaco.
Da questa intuizione di San Benedetto, nascono lungo i secoli tante Congregazioni monastiche cenobitiche, maschili e femminili: Cassinesi e Sublacensi, Cluniacensi, Vallombrosani, Silvestrini, Olivetani, Cistercensi… che costruiscono i loro monasteri in luoghi solitari, lontani dai centri abitati, dedicandosi inizialmente e per lungo tempo alla bonifica delle paludi o alla silvicoltura, al silenzio orante e allo studio, ma anche all’ospitalità e alla cura dei forestieri.
Alcune Congregazioni monastiche mantengono tutt’ora alcuni tratti dell’ascetismo dei primi secoli, mitigato dalla appartenenza ad una comunità: è il caso dei Camaldolesi, alcuni membri dei quali vivono in celle eremitiche come il loro fondatore San Romualdo (Ravenna, 951 – Fabriano, 1027); oppure i Certosini, “solitari riuniti come fratelli” nella Certosa fondata da San Bruno (Colonia, 1030 – Serra San Bruno, 1101) e “numquam reformatam” cioè mai riformata.
Tutta questa grande (e santa) storia contribuisce a darci il significato della parola “monaco“: il monaco per noi occidentali è un laico, che sceglie di sottostare ad una Regola, vivere in un monastero, separato dal mondo ma con altri fratelli, dedicandosi alla preghiera, al silenzio, allo studio, al lavoro manuale. Dal punto di vista interiore, egli sceglie di offrire la sua vita a Dio cercando di conformarsi, per amore, a Cristo povero, casto ed obbediente (i Voti o Consigli evangelici). In sintesi, potremmo dire che è monaco (o monaca) il religioso (o la religiosa) che si dedica ad una vita contemplativa (per questo si parla anche di Ordini di vita contemplativa).
Le cose cambiano nel secondo millennio, nel XII secolo, in età comunale. In concomitanza con lo svilupparsi dei centri urbani, il diffondersi delle eresie (soprattutto il pauperismo) e l’esigenza di risolvere alcuni problemi (allora come oggi) nella Chiesa, nascono gli Ordini mendicanti.
San Francesco d’Assisi (Assisi, 1181 – ibidem, 1226) nel 1209 ottiene la prima approvazione dei Francescani (“Ordo fratrum minorum“), che si caratterizzano inizialmente per la semplicità evangelica, la questua, la testimonianza di fraternità. Negli stessi anni, San Domenico di Guzman (Caleruega, Spagna, 1170 – Bologna, 1221) fonda nel 1216 i Domenicani (“Ordo fratrum praedicatorum”) con lo scopo principale di predicare alle masse la dottrina cattolica e sradicare le eresie. Per essere efficaci nel loro intento, entrambi stabiliscono la loro “casa” dentro la città o in prossimità di essa: si parla allora di Conventi (dal latino conventus, riunione di fratelli).
Il “frate” (dal latino frater, fratello) e la “suora” (dal latino soror, sorella), dunque, sono anch’essi dei laici che si consacrano a Dio tramite i Voti di povertà, castità ed obbedienza, ma vivono in un Convento, in un costante rapporto con la gente, dedicandosi alla predicazione, all’istruzione, all’assistenza dei malati e dei poveri. In sintesi, possiamo parlare di Ordini di vita attiva. Tra essi annoveriamo, oltre ai Francescani e ai Domenicani, gli Agostiniani, i Carmelitani, i Servi di Maria, i Fatebenefratelli… e tanti altri.
Fin qui ho parlato di Ordini religiosi, cioè di Congregazioni di laici organizzate in base ad una Regola. Ripeto: laici (dal greco λαϊκός laikos, del popolo, profano). Non tutti i religiosi, infatti, sono “preti”. Oltre evidentemente alle donne, persino alcuni fondatori non sono sacerdoti come, ad esempio, il diacono Francesco d’Assisi o, più recentemente, Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose. Ma alcune Congregazioni, per loro costituzione o per contingenze storiche o necessità operative (penso ai missionari), scelgono di consacrare presbiteri tutti i loro membri.
Nel monachesimo la presenza di un sacerdote (o presbitero), oltre ad essere una questione di “vocazione nella vocazione”, è genuinamente “funzionale” alla comunità, poichè egli può celebrare la Santa Messa e i Sacramenti per il monastero. Infatti, San Benedetto, nella Regola, al capitolo 62 stabilisce: “Se un Abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni. Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia e non creda di poter fare altro che quello che gli ordina l’Abate, tenendo sempre presente che d’ora in poi dovrà essere maggiormente sottomesso alla disciplina. Né col pretesto del sacerdozio trascuri l’obbedienza alla Regola o la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio. Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero, tranne che per il ministero dell’altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell’Abate l’abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare. Sappia però che deve osservare la disciplina prestabilita per i decani e i superiori. Se avrà la presunzione di agire diversamente, non sia più trattato come un sacerdote, ma come un ribelle. E nell’eventualità che, dopo essere stato ammonito non si correggesse, si chiami a testimonio anche il Vescovo. Ma se neanche allora si emendasse e le sue colpe diventassero sempre più evidenti, sia espulso dal monastero, purché però sia stato così ostinato da non volersi sottomettere e obbedire alla Regola.” Insomma, San Benedetto ci tiene proprio a che tutti stiano al loro posto.
Nel caso di un sacerdote religioso parliamo di “clero regolare”, poichè sottoposto ad una regola religiosa. Differentemente, i sacerdoti che troviamo generalmente nelle nostre Parrocchie, sottoposti ad un Vescovo diocesano, costituiscono il “clero secolare” (dal latino saeculum, mondanità).
Spesso mi capita (in verità quasi quotidianamente) di passare da Lo Speziale per acquisti, due chiacchiere e per l’amicizia (fortuna mia) di Luca.
Questo articolo lo rappresenta in forma e sostanza, in pensiero ed azione: conciso, diretto, elegante e forbito.
Grazie Luca!
Grazie! Lusingato.