A Bienno per Sua Maestà la Rosa

Mercoledì 1 maggio sono stato invitato a Bienno (Brescia), a Palazzo Francesconi, per partecipare ad una giornata interamente dedicata alla regina dei fiori: la rosa. Ringrazio di vero cuore l’organizzatrice, la dott.ssa Angela Avanzini, per l’invito e l’ospitalità.

Su invito di alcuni affezionati clienti ho cercato di dare una “sistemata” agli appunti della mia relazione. Spero possano darvi degli spunti di riflessione ed essere occasione di diletto.

 

 

La rosa raccoglie in sè numerosi significati, evoca simbologie, suscita immagini che hanno antiche e profonde radici nel nostro essere occidentali. E’ simbolo di amore e passione, purezza e verginità, mistero e segreto, bellezza e femminilità, eternità e perfezione… In un paragone: la rosa, per l’occidente, ha la stessa importanza che assume il fiore di loro in oriente. Tutto questo nostro immaginario collettivo legato alla rosa ha due radici: la tradizione classica greco-romana e la tradizione cristiana.

La nascita della rosa nel mito greco di Adone e Afrodite (Venere): la dea, innamorata del giovane cacciatore, nulla può fare per salvarlo dalla morte provocata dall’attacco di un cinghiale, istigato dal rivale Ares (Marte). Nel soccorrere l’amato, Afrodite si ferisce con dei rovi e il suo sangue fa sbocciare delle rose rosse. Zeus (Giove) commosso dal dolore della dea, permette ad Adone di vivere alcuni mesi nell’Ade con Persefone (Proserpina), durante l’inverno, e alcuni mesi nel mondo dei vivi con Afrodite, durante la primavera. La rosa viene dunque associata all’amore e alla rinascita sancita dalla primavera.

I Romani festeggiavano a partire dal mese di  maggio i “Rosalia”, una festa dei morti, degli antenati, legata ai “mores maiorum”. In queste ricorrenze erano soliti decorare le sepolture con delle rose. E cingere le statue e i busti degli antenati con corone di rose. Qui le rose simboleggiano devozione ed eternità.

Da questa usanza di cingere il capo delle statue con corone di rose, nasce il nostro termine “corona del rosario”. In alcune zone di Italia è rimasta la consuetudine di fare queste corone di fiori per ornare il capo delle statue dei Santi di cui si festeggia la ricorrenza. Se fate caso all’iconografia in tanti quadri e santini antichi, vedete Santi e Sante con il capo coronato di fiori. Con gli Ordini mendicanti, il rosario, preghiera semplice (si usano le dita delle mani) e potente, diventa elemento importante della devozione dei fedeli, quasi a significare che ogni Ave Maria è una rosa (metafisica ma non meno reale) donata alla Madre Celeste, una rosa profumata, ad impreziosire la Sua Corona.

Il cerimoniale imperiale romano prevedeva che, in molte circostanze pubbliche, il Cesare Augusto non toccasse mai con i piedi la nuda terra, ma calpestasse petali di rose. Da queste usanze derivano le “infiorate”, legate al culto eucaristico.

E, durante i trionfi imperiali, venivano gettati in aria, sulla folla, petali di questo pregiato fiore. La Pentecoste cristiana in alcune zone d’Italia viene ancora chiamata “Pasqua rosata”, per l’antica consuetudine (genuina e scenografica) di gettare sui fedeli, dall’alto delle navate delle basiliche, dei petali di rosa rossa durante il canto del “Veni Creator Spiritus”. Ogni anno si consuma questo bel evento nel Pantheon (S. Maria ad Martyres) di Roma.

Già nella Bibbia si parla di rose: ad esempio, il “roveto” ardente del Sinai, letto da alcuni rabbini quale “roseto” che non si consuma dal fuoco dalla Divina Presenza.

E’ con il Medioevo che si solennizza la rosa quale fiore mistico. Dante stesso vede il Paradiso come una rosa perfetta, con corolle di Santi, al cui centro c’è la perfezione fatta carne, la Beata Vergine Maria.

La forma della rosa, con tutti i suoi petali profumati, viene presa quale emblema per le vetrate circolari, che non a caso si chiamano “rosoni”. Simboli di perfezione, geometricità, circolarità continua, ruota del sole, eternità… molto simili ai mandala buddisti (l’uomo in fin dei conti è stato creato dall’unico Signore e le Sue impronte si scorgono in ogni angolo del globo e della storia – penso io).

 

 

In un racconto apocrifo si narra che Maria, durante la fuga in Egitto, avesse lavato il suo manto azzurro e lo avesse posto ad asciugare su un cespuglio dai fiori bianchi. I fiori da quel momento divennero azzurri. Nacque così il rosmarino o rosa di Maria.

Dunque, fin da subito, i significati più belli e mistici della rosa vengono associati alla Madre di Dio, rosa senza spine, rosa bianca e pura, colei che serba nel cuore le opere divine (non a caso si dice “sub rosa” quasi a significare segretezza).

Nei “Cantigas de Santa Maria” del XIII secolo, una raccolta di canti popolari voluta dal Re di Castiglia Alfonso X, detto il Saggio, il cui codice è custodito ora a Madrid, leggiamo una canzone monofonica spagnola in cui si racconta che un monaco “birbante” dedica quotidianamente alla Madonna cinque salmi, uno per ogni lettera del nome di Maria. Alla sua morte, con grande stupore dei confratelli, dalla sua bocca sbocciano cinque rose, quale segno tangibile di una devozione ben gradita alla Vergine e segno di salvezza eterna.

Non mancano Santi legati alle rose o meglio rose legate ai Santi. Di Santa Elisabetta di Ungheria (1207 – 1231), principessa e Langravia di Turingia, si narra un aneddoto: era solita donare il pane della tavola regale ai poveri; per cui un giorno prese del pane, se lo mise tra le vesti, o nel grembiule, e scese le scale del palazzo per portare conforto ai mendicanti. Ma la sorprese il marito, il principe, che le chiese, arrabbiato, cosa avesse tra le vesti. Lei disse: “Ho delle rose”. Il Langravio, ovviamente, furibondo (perchè avido del suo denaro), non le credette. Dunque la strattonò e la obbligò ad mostrare la refurtiva. In effetti il pane si era trasformato in rose rosse. Ed era pure inverno. S. Elisabetta è, non a caso, patrona dei panificatori.

Una cosa simile accadde a S. Diego di Alcalà (1400 – 1463) che faceva lo stesso per i poveri della città contro il volere del padre guardiano del convento. Stesso miracolo delle rose a sancire l’approvazione divina, alla faccia di calcoli e regole.

Le rose rosse divengono simbolo di martirio, come per  S. Agnese (III secolo d.C.) che post mortem, avvenuta per martirio il 21 gennaio, consegna dal paradiso un cesto di rose. Similmente la rosa è legata a Santa Rosalia di Palermo (+ 1170) e Santa Rosa da Viterbo (1233 – 1251).

Ancor oggi in alcune chiese, il 22 maggio, si benedicono le rose nella ricorrenza di Santa Rita da Cascia (1381 – 1457). Alcuni mesi prima di morire, ormai agostiniana e in convento, chiese alla cugina di portarle, dall’orto della casa paterna, due fichi e una rosa. La cugina si recò sul luogo (caro e triste per Rita) e con stupore vide, tra la neve, il fico carico di frutti e il roseto fiorito. La Santa dell’impossibile, con il simbolo delle rose, rende tangibile la speranza e la fiducia nella Provvidenza.

Non è poi un caso che al profumo delle rose venga legato il profumo di santità o del paradiso, ad esempio nel caso delle stigmate di Padre Pio o le apparizioni miracolose.

 

 

Con la caduta dell’impero romano d’occidente, nel 476 d.C., i monasteri rimasero gli unici avamposti della civilità, sia dal punto di vista amministrativo, di controllo del territorio, tassazione, gestione delle terre, etc… ma anche quali unici custodi di cultura, di capacità tecnica e sapere scientifico. Le biblioteche e gli “Scriptoria”, dove si copiavano incessantemente tutti i testi per preservarli e diffonderli, hanno permesso di non perdere la tradizione classica e di sviluppare ulteriormente le scienze e la conoscenza.

In tutti i monasteri era (ed è) previsto l’orto dei semplici o l’hortus conclusus, che doveva assolvere la funzione di autonomia del cenobio per tutte le ricette fitoterapiche e galeniche che i monaci preparavano nella farmacia (o erboristeria) aperta anche ai forestieri. Gli Abati fecero in certi casi “a gara” per avere le rose più singolari e preziose, non solo per un fine estetico appunto. La rosa, con il suo profumo, la sua preziosità e tutti i significati sopra elencati, era un ingrediente prezioso, un talismano contro il male.

Un esempio: la fortuna dell’acqua di rose. Nel 1348 a Firenze scoppiò l’epidemia di peste nera bubbonica, di cui parla anche Boccaccio nel Decamerone. I Padri Domenicani di Santa Maria Novella, per prevenire il contagio, che si pensava avvenisse per via aerea attraverso l’odore sgradevole, idearono l’acqua di rose, che da quel momento divenne celebre in tutta Europa. Con questa acqua profumata si “purificavano” gli indumenti e i giacigli, si imbibivano i fazzoletti, si mondavano viso e mani.

Tutto ciò che parla di rose è più bello e più appetibile. Un caso fra tutti, recente, è il libro di Umberto Eco, pubblicato nel 1980, che doveva chiamarsi, nell’intenzione dell’autore, “L’abbazia del delitto”. Un suo conoscente, che lesse il manoscritto, gli suggerì di cambiare il titolo rifacendosi alla citazione del “De contemptu mundi” posto in chiusura al testo: “Stat rosa pristina nomine, nomine nuda tenemus – la rosa primigenia esiste solo come nome, noi abbiamo solo nudi nomi”. Lotario di Segni, divenuto poi Papa Innocenzo III, con questa frase sottolineava la differenza tra essenza o realtà ontologica delle cose e il loro nome. Rientra nella economia del libro di Eco, in cui c’è una continua ricerca di libri che parlano di altri libri. Eco scelse il titolo “Il nome della rosa” perchè, alla fine, era più evocativo.

Se una persona ci racconta di aver ricevuto in dono un mazzo di fiori, pensiamo subito a delle rose.
Nella fiabe c’è quasi sempre una rosa, come ad esempio nella teca di vetro della Bestia.
Insomma, una rosa vuol dire tanto, per tutti noi. Ancor oggi.

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