Al castello di Monale: Le nobili spezie

Domenica 17 giugno 2018, sono stato invitato da Sergio Magnetti, Sindaco del Comune di Monale (Asti), a partecipare in qualità di relatore ad un convegno intitolato “Le nobili spezie”, evento inserito nella “Festa al Castello”. Insieme a Lo Speziale, sono intervenuti Elisabetta Cocito, Direttrice del Centro Studi del Piemonte dell’Accademia Italiana della Cucina, Diego Bongiovanni, chef (anche se lui preferisce definirsi cuoco) e Francesco Scaglione, ricercatore di erbe. Renato Romagnoli, giornalista, ha moderato la conferenza. Giornata stupenda, compagnia ottima e stimolante, accoglienza deliziosa.

Ecco il canovaccio del mio intervento. Abbiate pazienza per gli errori di “consecutio temporum” ma desidero abbia ancora il sentore della spontaneità del dialogo con il pubblico.

Fin dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C. con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo, i monasteri e i cenobi hanno svolto una funzione sociale e culturale essenziale per la nostra civiltà europea ed occidentale. Sono stati gli unici punti di presidio del territorio, di gestione delle attività umane, dall’agricoltura all’edilizia. I monasteri hanno svolto quella funzione conservativa di un patrimonio culturale e scientifico, dall’antico al nuovo mondo. Proprio per il patrimonio culturale e scientifico che ogni biblioteca monastica conteneva, presidiava e conservava, i monasteri sono stati i luoghi culturali per eccellenza fino all’età moderna. Centri di studi, di propagazione di sapere, di sperimentazione. Non a caso le università sono nate grazie e tramite i monasteri e le comunità religiose. Non solo, ma tutti i monasteri e le comunità religiose hanno fornito per secoli una rete efficace di comunicazione e diffusione di informazioni e di cultura in tutto l’Occidente. I codici miniati, le missive e la posta, i professori (religiosi), giravano l’Europa tramite i monasteri. Perché in sintesi erano gli unici centri, le uniche entità stabili, sicure, accoglienti. I feudatari con i loro castelli erano spesso troppo “di parte” e troppo chiusi in se stessi e nei loro interessi. Dopo questa premessa, che dà il sentore di un background o meglio di un humus culturale molto fecondo e molto vivace, nonostante noi abbiamo un’idea distorta di un medioevo oscuro e retrogrado, vi invito a tentare di fare un viaggio nel tempo.

Lo Speziale é anche un cantastorie, lo sanno bene i miei clienti, perché dietro ogni prodotto e ogni ricetta c’è una storia che molto spesso si lega anche alla leggenda e alla agiografia dei Santi. Torniamo indietro nell’agosto dell’anno del Signore 1557. In una abbazia cistercense della pianura padana, tra campi e marcite. Con quell’afa, quel caldo tipico del Nord Italia. Incontriamo un abate, l’abate Gregorio, superiore di una piccola comunità di 20 monaci cistercensi in questa abbazia che si staglia solitaria in un lembo di terra sottoposta all’autorità di Milano.

Composizione di luogo per questa storia verosimile. L’anno prima, nel 1556, l’imperatore Carlo V, sul cui regno non tramontava mai il sole, aveva abdicato in favore del fratello Ferdinando I d’Asburgo. Alcuni anni prima, nel 1540, il figlio di Carlo V Filippo II di Spagna era stato nominato Duca di Milano. Dunque nel 1557 proprio nell’agosto era stato nominato il nuovo governatore di Milano, Juan de Figueroa, che proprio quel giorno viene a visitare l’abbazia per omaggiare i monaci cistercensi prima della festa dedicata al santo fondatore, San Bernardo di Chiaravalle, che cade il 20 agosto.

Nel parlatorio del monastero il padre abate Gregorio si sta intrattenendo con il governatore del Re di Spagna. Possiamo immaginare il tono dei discorsi, molto raffinati, fin troppo costruiti, ma se paragonati ai livelli comunicativi odierni molto più civili. Ed interessanti nei contenuti. Ed ecco che il governatore, come era abitudine, fa un dono all’abbazia: una pianta di “pepe d’India” che arriva dal nuovo mondo. Il governatore racconta che questa pianta appunto arrivava dai nuovi possedimenti della Corona di Spagna, in quei territori che da pochi anni vengono chiamati America in onore di Amerigo Vespucci e delle sue spedizioni. Racconta che tale pianta venne portata alla corte del Re da Cristoforo Colombo in persona con il suo secondo viaggio, terminato nel 1496. L’abate guarda con interesse ma anche con un po’ di spaesamento questa nuova pianta con le sue bacche rosse come le fiamme. Il Governatore racconta che oltre al moltissimo oro e argento che provenivano dalle colonie, la Corona di Spagna crede di poter guadagnare molto dall’importazione di nuove spezie e nuove esemplari botanici.

Detto tra di noi, anticipiamo un po’ la storia, il peperoncino, che veniva allora chiamato con il termine di pepe d’India, non darà il guadagno economico sperato, perché gli spagnoli non poterono mantenere il monopolio dell’importazione dall’America. Infatti l’importazione sarà resa vana dalla perfetta acclimatazione in Europa di tale pianta.

Il colloquio finisce. Il padre abate prende con sè questo munifico dono del governatore del Re di Spagna, il cattolicissimo e devotissimo, percorre il chiostro e si rifugia nel suo studio. Nell’attesa che suoni la campana del vespro, osserva la pianta: da una parte è lusingato di avere una tale meraviglia, una pianta speciale e unica per il momento nel Ducato di Milano. Anche se avrebbe preferito ricevere un po’ di denaro con cui sfamare i monaci e poveri. Ma si sa i nobili a volte sono estrosi. Dall’altra é anche spaventato: “A cosa serve?” Pensa tra sé. “Come si usa?” E pensa anche alle reazioni della comunità monastica di fronte a questa novità. Ecco, la campana suona. Lascia la pianta sul suo scrittoio e corre verso il coro. La serata scorre secondo consuetudine, nell’afa della pianura.

Come stabilisce proprio la Regola, ogni mattino, dopo le preci in coro iniziate all’alba, la comunità si raccoglie in capitolo. Ed ecco che il padre abate dopo la lettura di uno dei 73 capitoli della regola di San Benedetto mostra alla comunità il dono del governatore. Fratel Eutimio, il monaco speziale, era forse quello cui brillavano di più gli occhi. Fratel Placido, il più anziano della comunità, aveva sessant’anni (normalmente l’aspettativa di vita in monastero era molto bassa per via dei lavori pesanti di bonifica e di agricoltura) era sicuramente più scettico e sospettoso. Ma padre Gregorio queste cose le sapeva e le aveva previste. E un poco sorrideva, come fa un padre di fronte suoi figli.

Ecco infatti che fratel Placido ammonisce la comunità di fronte a “questa pianta sconosciuta, con le bacche rosse come l’inferno, sicuramente un dono del Demonio che porta alla corruzione e alla rovina”. L’abate Gregorio di fronte all’intransigenza di fratel Placido, sorrideva poiché aveva previsto tale atteggiamento di fratel Placido (lo aveva già fatto anche quando fratel Teodoro, il responsabile dello Scriptorium, dovette mettere gli “oculi in capsula”, gli occhiali). Ma voleva molto bene a fratel Placido perché era una persona veramente retta che amava sinceramente la comunità. Fratel Eutimio, il monaco speziale, affascinato dalla novità botanica, si arrischia a toccare le bacche, ad annusare l’aroma delle stesse, ma dichiara di essere completamente ignorante di fronte a tale novità. Si accorgerà più tardi quando si sfregherà gli occhi con le dita, della capacità urticante delle bacche di peperoncino. Fratel Mauro, che in quell’anno prestava servizio in foresteria, suggerisce al padre abate di inviare una richiesta di informazioni al famoso medico imperiale, “Lui ne saprà qualcosa”. Infatti proprio in quei giorni, in foresteria, sostava un cavaliere boemo di ritorno da Roma in partenza presto verso Praga, la sede imperiale.

Per tranquillizzare tutti i fratelli scettici e apocalittici, e per evitare eccessivi entusiasmi, il padre abate decide di conservare la pianta nel piccolo chiostro attiguo al suo appartamento. Quel giorno stesso scrisse la missiva al medico imperiale il medico senese Pietro Andrea Mattioli, con la speranza di ricevere da lui tutte le informazioni su quello che governatore chiamó il pepe d’India. “Eminentissimo ac reverendissimo Petro Andreae Mattioli, Imperialis Regis Medicus…” così iniziava sul foglio di pergamena la missiva. Consegnata la stessa al cavaliere boemo tramite fratel Mauro, la vita in abbazia continuò secondo la sua calma e calda regolarità nelle settimane successive.

Noi non siamo più abituati alla lentezza dei tempi logistici, organizzativi e realizzativi dell’epoca antica. Anche se un po’ li invidio. Passarono settimane prima che arrivasse la risposta dal medico imperiale. Ma la risposta arrivó. La pergamena era scritta in caratteri italici, molto ordinata, di gusto toscano (Mattioli era senese). Fu un piacere per l’abate leggere lo scritto e finalmente aver risposta, se non a tutti, almeno su la maggior parte dei suoi dubbi ed interrogativi. Il medico imperiale confermò il racconto del governatore di Milano: il pepe d’India fu importato da Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio dalle isole al di là dell’oceano. Rifacendosi alle testimonianze di Bartolomeo de Las Casas, un religioso spagnolo che seguì Colombo nei suoi viaggi, questo pepe era molto diffuso ed utilizzato dai nativi. Nella lingua locale, così dice il medico, questo pepe era chiamato AXI. Inoltre conferma che è una spezia molto piccante e che già gli indigeni consideravano curativa per vari malanni. Ovviamente la parte utilizzabile é la bacca rossa e soprattutto i semi custoditi al suo interno. Al momento lo stesso Mattioli sta indagando sulle proprietà benefiche di tale pepe (pare aiuti a digerire) e sulle sue capacità di conservare i cibi come il pepe orientale. Il medico imperiale si raccomanda la moderazione nell’utilizzo di tale spezia perché a suo parere puó accendere gli animi.

Il padre abate convoca fratel Eutimio (uno dei pochi che sapeva leggere scrivere) e gli fa leggere la lettera. Raccomandando la prudenza, gli concede di sperimentare, con discrezione, alcuni preparati a base di questa nuova pianta. Se nessun fratello si rendesse disponibile a testare tali novità, oltre a lui e all’abate stesso, sanno di poter contare su fratel Donato (un fratello converso, un pover’uomo di non spiccata intelligenza, uno dei tanti orfani lasciati in monastero) per vedere gli effetti di questi esperimenti. Chiama inoltre fratel Teodoro, il bibliotecario responsabile dello Scriptorium, chiedendogli di scrivere una lettera di ringraziamento al governatore, inserendo parte delle spiegazioni del medico imperiale per diletto del governatore, e di inserire poi la lettera negli archivi dell’abbazia. E così la vita in abbazia riprende la sua tranquilla regolarità, nell’ “Ora, lege et labora”.

Questa piccola storiella, per quanto possa essere verosimile e banale, esprime bene a livello antropologico e psicologico come l’uomo si pone di fronte alla novità. Di fronte alla novità, anche se essa é una spezia, possiamo essenzialmente avere alcuni atteggiamenti. Possiamo essere anche noi come fratel Placido: catastrofisti, negativi, rifiutando la novità a priori in modo irrazionale e sciocco. Ed é la ragione di tanti GAP intergenerazionali. Possiamo essere come fratel Eutimio, il monaco speziale: un atteggiamento altrettanto irrazionale poiché passionale, impulsivo nell’accettare subito la novità “sic et simpliciter”. Lo vediamo spesso a riguardo delle mode alimentari: ad esempio come per le bacche di goji (un buon frutto di stagione è nutriente e anche più gustoso) o la curcuma (che non è da mettere dappertutto e non è da prendere in quantità industriali, altrimenti viene l’itterizia). C’è il terzo atteggiamento quello più nobilmente umano, quella razionale, quello dell’abate Gregorio che chiede, si informa e poi decide. Abbiamo tutti gli strumenti informatici, abbiamo anche un’intelligenza per filtrare le fonti di informazione. Anche se a volte mi spavento della miriade di siti on-line ricchi di castronerie. Noi additiamo il medioevo come un’epoca di non-scienza, non-razionalità. Ma l’epoca dei creduloni é la nostra. Così anche le spezie possono dire molto di noi, delle nostre attitudini e del nostro cuore.